17 gennaio 2012

Bentornato a casa

Sono a casa, da ieri sera. Ho un calcolo in meno (era proprio un bel sassolino di granito, grosso all'incirca come mezzo chicco di caffè) ed il braccio sinistro che pende senza vita dalla spalla. Non so cosa sia successo, forse tra l'immobilizzazione dell'operazione e dei primi due giorni successivi e la caterva di iniezioni che mi ci hanno fatto, qualche muscoletto sarà andato fuori uso. Il dolore è davvero molto acuto, spero che passi presto perché non posso prendere antidolorifici, che rischierebbero di farmi riprendere a sanguinare.
L'ospedale. Struttura piuttosto moderna, che mostra appena qualche segno di cedimento, forse dovuto a mancanza di manutenzioni preventive (che oramai non si fanno più, costano troppo, si passa direttamente al restauro quand'è il momento).
All'arrivo mi barcodizzano, come i canestrelli... Meglio così che darmi le terapie sbagliate o perdermi per strada...


La camera e più che decente, quasi buona direi, due letti, il bagno in comune con lavandino, gabinetto e bidet, c'è persino la doccia: meglio di quanto pensassi. La TV è a pagamento, il primo giorno quando passa l'addetto sono troppo in coma per farla attivare. Il secondo riesco ad acchiapparlo e godo di 24 ore di visione per 3 euro. Il giorno successivo è festivo, l'addetto non passa, la TV resta spenta. Che bellezza. Non poteva dirmelo ieri, che oggi non sarebbe passato?
Atmosfera torrida, tipo serra sahariana. Finestra della camera bloccata. Giaciglio di tek, durezza di poco inferiore al diamante. Mi è capitato un letto "vecchio", sono un fortunello. Dormirci è stata davvero un'impresa, che a me per la maggior parte del tempo non è riuscita... Già, il tempo.
Il tempo in ospedale non passa mai. Giovedì quando sono entrato, prima delle 8, ero già nervoso. Credo sia normale. Mano a mano che le ore di attesa passano il nervosismo si tramuta in ansia, poi in angoscia (ok, esagero un po', comunque non è che mano a mano che passasse il tempo in me crescesse la serenità...). Mi hanno portato via alle 13. Mi sono spogliato, messo su una lettiga, sono stato coperto con una bella copertona di lana ed hanno cominciato a trasportarmi verso la sala operatoria. Mi chiedevo che ci facesse la copertona di lana con la temperatura equatoriale che c'era, poi ho capito. Si doveva attraversate praticamente tutto l'ospedale, inclusi corridoi di intercomunicazione tra padiglioni e reparti, con sbalzi di temperatura da 30 a 10 gradi, o qualcosa di simile. L'ascensore era lo stesso dei visitatori. Caricato all'ottavo, ho fatto una fermata praticamente ad ogni piano. L'ascensore si apre, gli aspiranti discensori notano che è ripieno di me in lettiga + due infermieri. L'ascensore si richiude, riparte, fa un'altro piano e ripete la scena. Fino al seminterrato. Poi i corridoi di intercomunicazione di cui dicevo, ecc.
Prima di entrare in sala operatoria aspetto un'altra ora. Per fortuna da qui vedo un bell'orologione digitale sul muro di fronte che mi aiuta a contare i minuti. Nel frattempo mi sparano in vena mezzo litro di antibiotici. Poi la preanestesia ma mi viene più sonno per la noia che per il farmaco. Mi tocca aspettare ancora un po', prima di entrare. Mi fanno spostare dalla lettiga al tavolo operatorio, sono sveglissimo mentre mi sistemano le gambe tipo ginecologo e me le bloccano. Poi, finalmente, l'anestesia. Conto fino a 1, poi la tranvata anestetica e mi risveglio nel mio letto. Il resto sono dettagli.
L'operazione è andata bene, a quanto sembra. Ne ho le prove: qui sul comodino, nel loro pratico contenitore, giacciono i resti del calcolo rimosso. La cosa peggiore sono i tubi e tubicini che pendono da varie parti del corpo e che ti impediscono qualsiasi movimento, praticamente. Ma è solo per i primi due giorni. I successivi due deambulo sulle mie gambe, un po' malferme ma funzionanti.
Lato positivo, le persone. Medici e infermieri, tutti molto gentili o quasi. Per fortuna, almeno questo.
Dettagli meno edificanti. Il dolore. Nel mio caso, per fortuna, poco. Peggio quello al braccio che tutto il resto. La solitudine. E' quella che pesa di più nelle lunghe ore durante le quali i tuoi cari sono in libertà e tu recluso. La paura. Di non essere autonomo nel fare ciò che vuoi, perché il tuo corpo non risponde ai comandi e non c'è nessuno lì a darti una mano, non riesci nemmeno a chiamare aiuto. Spero non mi capiti mai più, meglio morire sani, probabilmente, che invalidi, incapaci di badare a sé stessi.
Ora sono a casa, mi sento molto meglio, a parte il braccio che non risponde ai comandi, se non causandomi lancinanti fitte di dolore. Credo di poter dire che mi è andata bene. E bentornato a casa.

Nessun commento: