30 maggio 2008

Una mazzata di tecnologia (Stefano benni)



Tutto è tornato tranquillo, o quasi. La fame di novità degli italiani è saziata. Ci hanno rifilato lo stesso governo che ha già fallito per due legislature, le stesse persone, con qualche ritocco di lifting. L’informazione di destra, farcita di miliardi statali e soldi di Silvio, può riprendere a sgomitare per occupare cariche e palinsesti televisivi. L’informazione di quasi-sinistra, dopo un attimo iniziale in cui si prometteva una dura autocritica e rinnovamento, può tornare a occuparsi di vicepresidenze, dei suoi intellettuali-spot e del gossip. Il riapparire di qualche saluto fascista, la Lega che con l’otto per cento si comporta come avesse l’ottanta per cento, la sparizione di qualche vecchio democristiano, la promessa di cacciare via centomila immigrati. Queste le misere novità. Ma nel complesso, tutto è tornato vecchio e senza futuro, come previsto.
Ma se la politica è sempre più vecchia, dove si incarna, allora, la fame di nuovo del paese?
Ma diavolo, nella tecnologia! Abbiamo metà degli italiani con la sola licenza media, ma il cento per cento di telefonini. Basta salire su un treno per accorgersi di questa escalation verso il futuro.
Vi sedete e tirate fuori il computer. E’ un portatile vecchio di tre anni, non l’ultimo modello, ma ne siete orgoglioso. Ed ecco che davanti a voi un ragazzotto, con un ghigno, ne tira fuori uno più piccolo e sottile, e inizia a sorbirsi un film, guardando il vostro computer come se guardasse una clava.
Ma anche per lui, c’è una brutta sorpresa. Nel sedile vicino si siede un signore stile manager, che parla al telefonino con l’auricolare. E mentre parla, estrae un computer sottile come un velo, la metà di quello del ragazzotto.
Con aria trionfale, si mette a lavorare e ci guarda con superiorità e compatimento.
Non è finita. Arriva un uomo grasso e sudato, con una valigia di un quintale che sistema in mezzo al corridoio. Tutto in lui è colossale, smodato, eccessivo. Ma dalla sua tasca ecco apparire un gioiello di sette centimetri per dieci, un computer-telefono-multifunzioni-polisex.
L’omone inizia a sfiorarlo con le dita e ci guarda: in un attimo siamo diventati tre pitecantropi cibernetici, tre residui del passato. Il manager e il ragazzotto sembrano sul punto di piangere.
Insomma, la gara tra gli italiani, ormai è a chi ce l’ha più piccolo. Un ribaltamento completo delle retorica del macho latino.
Inizia la conversazione. L’omone dice che ha comprato il computer che si chiama e-y 67 alien, o qualcosa di simile, a Miami, ma non è l’ultimo modello e aspetta che esca il nuovo.
Il manager si lamenta che in un paese civile bisognerebbe potersi collegare a internet in qualsiasi luogo, treno o aereo, e lui perde un sacco di tempo disconnesso (non si capisce se si riferisce al cervello o al web).
Il ragazzotto dice che il problema non è la tecnologia ma che nessuno sa usarla e poi ormai il telefonino ce l’hanno anche i rumeni.
In quel momento irrompe una signora. Sta parlando ad alta voce con tono alterato. Ormai è difficile distinguere un telefonatore con auricolare da un matto che parla da solo. Purtroppo è il primo caso.
Entra, fa spostare tutti e intanto continua a parlare delle gesta di una certa Matilde.
Poi si siede, sbuffa e ci guarda. E estrae qualcosa dalla borsa. Il momento è di grande tensione.
La signora esibisce un oggettino rotondo con la circonferenza di cinque centimetri. Tutti impallidiamo. Per fortuna non è un mini-computer, è un portacipria. La signora si rassetta il naso e riprende a telefonare.
A voce alta, fa saper a tutto il vagone che quella porca di Matilde le ha trombato il marito alla pensione Sole di Riccione e lei lo ha scoperto da un messaggio al telefonino. Parla urlando. Allora il ragazzotto alza al massimo la musica del computer. Il manager si mette le cuffie e si isola. L’omone, ricomincia a carezzare il suo e-y 67 alien.
Passa un bambino di sette anni con un videogioco, cammina come in trance e urta in tutti i sedili. Mi ricordo che mio figlio, a quell’età, per giocare ai videogiochi doveva portarsi dietro uno scatolone di dieci chili.
Ecco, penso, non è vero che in Italia non c’è il nuovo, e non c’è futuro.

Stefano Benni

Pubblicata su libération.fr il 17 Maggio 2008.
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