29 novembre 2007

La cura (Hermann Hesse, 1925)

Leggo dalla retrocopertina.
"Una pausa di due settimane nella vita di un intellettuale che aspira alla saggezza lo spinge - attraverso piccoli fatti in apparenza irrilevanti - a dubitare con buone ragioni di sé: e quell'intellettuale è Hesse stesso, che ironizza stupendamente sulla propria persona."
Cito dal I Capitolo - "IN CURA".
"Il mio treno era appena arrivato a Baden e io avevo appena disceso, con un po' di fatica, i gradini della carrozza, quando già il fascino di Baden mi si faceva sentire. Mentre, in piedi sull'umido marciapiede di cemento, cercavo con gli occhi il portiere dell'albergo, vidi scendere da mio stesso treno tre o quattro colleghi in sciatica, come appariva chiaro dalla trepida apprensione con cui stringevano le natiche, dal loro passo incerto e dalla mimica piuttosto smarrita e piagnucolosa che accompagnava i loro cauti movimenti. Ciascuno di loro, senza dubbio, aveva la sua specialità, il suo particolare tipo di sofferenza, e perciò il suo speciale modo di camminare, di esitare, di incedere, di zoppicare, e anche la sua propria, inimitabile mimica, eppure quel che dava più nell'occhio era ciò che avevano in comune, e io li riconoscevo tutti a prima vista come malati di sciatica, come fratelli, come colleghi. (...)
Mi fermai dunque subito e osservai questi "segnati". Ed ecco, quei tre o quattro individui avevano tutti un'espressione più cupa della mia, si appoggiavano più forte ai loro bastoni, stringevano le natiche con più spasimo, poggiavano i piedi a terra con maggior trepidazione e malumore, erano - tutti quanti - più sofferenti, più meschini, più malati e più da compiangere di me, e ciò mi fece un gran bene e, durante tutto il tempo che passai a Baden, mi fu un inesauribile, sempre rinnovato confortoil vedere che tutt'intorno a me zoppicavano, si trascinavano, sospiravano, andavano in carrozzella persone ch'erano molto più inferme di me, che assai meno di me avevano ,otivo di nutrire speranza e buon umore. Così, appena arrivato, avevo scoperto subito uno dei grandi segreti e incantesimi di tutti i luoghi di cura e assaporai con vera delizia la mia scoperta: la comunità del dolore, il socios habere malorum. (...)
Peccato però che proprio mentre facevo il mio ingresso all'albergo cominciasse a piovigginare.
"Lei ha portato il cattivo tempo" mi disse, sorridendo, la gentilissima signorina del bureau nel salutarmi.
"Ma no" dissi, un po' disorientato. Che faccenda era questa? Possibile che fossi proprio io, pensai, ad aver chiamato questa pioggia, ad averla fabbricata e portata qui? Che la piatta concezione comune lo negasse non bastava certo a scagionarmi, teologo e mistico com'ero. Sì, allo stesso modo con cui destino e carattere sono due nomi di un medesimo concetto, allo stesso modo con cui, in un certo senso, mi ero scelto e fabbricato io medesimo il mio nome e il mio stato sociale, la mia età, il mio volto, la mia sciatica, e di tutto ciò non potevo chiamare responsabile altri che me stesso, così, probabilmente, anche questa pioggia era opera mia ed io mi sentii pronto ad assumerne la responsabilità." (...)

Bello e a tratti illuminante. Lo consiglio. Soprattutto il colloquio con il medico, straordinario: "(...) era davvero sapiente, possedeva cioè un vivo senso della relatività di tutti i valori spirituali."

Nell'immagine, un acquarello di Hermann Hesse.

Nessun commento: