30 marzo 2007

C'è un ateo in toga al citofono (di Michele Serra)

Solo la rivendicazione di una forte identità può salvare i cattolici dal relativismo. Ecco il decalogo per le altre comunità che non vogliono essere da meno.

Secondo il pensiero del cardinale Giacomo Biffi e il magistero di papa Ratzinger, solo la rivendicazione di una forte identità può salvare i cattolici dal relativismo, ribadendo in ogni istante della propria vita privata e pubblica la propria fede e i propri convincimenti etici. Sull'esempio dei cattolici, e per non dare la cattiva impressione di essere meno determinati dell'esprimere la propria identità, ecco alcuni consigli per alcune delle altre comunità presenti nel nostro paese.

Atei
Il buon ateo dovrà far notare ogni giorno ai vicini di casa che Dio non esiste, citofonandogli e imponendo che l'argomento venga messo all'ordine del giorno durante le riunioni di condominio. In ascensore, piuttosto che divagare con le consuete chiacchiere sulle condizioni meteorologiche, dovrà avvertire il vicino di pianerottolo che, dopo la morte, egli si dissolverà nel buio eterno, senza speranza. Per non correre i rischi del relativismo, qualora suonassero le campane della chiesa di quartiere, dovrà affacciarsi alla finestra intonando canti priapici o dionisiaci, ribadendo così la propria totale estraneità al culto cattolico. L'ateo davvero attento alla propria identità culturale non si limiterà a non battezzare i suoi figli, ma disturberà attivamente il battesimo dei figli altrui, distraendo il prete con argomenti divaganti. L'abbigliamento consono all'ateo è la toga indossata alla Seneca, facendo però attenzione, nelle ore di punta, a non impigliarsi nelle porte della metropolitana.

Immigrati
Gli immigrati di ogni provenienza, per non dissolvere nell'anonimato metropolitano la propria identità, devono indossare il costume tipico del Paese d'origine. Il lappone in pelliccia di foca, il tartaro con la mantellina di capra, il centrafricano con il tamburo sempre a tracolla, il russo con il colbacco, l'arabo con il cammello, l'australiano con il boomerang, il brasiliano vestito da calciatore, l'argentino da gaucho, l'olandese con gli zoccoli di legno, l'egiziano sempre di profilo, il brianzolo con un finanziere che lo rincorre: solo così nelle nostre strade potremo riconoscere le diverse identità nazionali e salvarle dalla deriva relativista.


Comunisti
Con barba e capelli lunghi (se si è calvi, con il pizzo alla Lenin), il vero comunista dovrà salutare con il pugno chiuso anche quando entra dal panettiere. In ogni momento della sua giornata dovrà onorare il marxismo scientifico fermando i passanti e facendogli domande a bruciapelo sulle differenze tra struttura e sovrastruttura, sgridandoli severamente qualora fossero impreparati. Anche se cammina da solo sul marciapiede, assumerà un atteggiamento da corteo, scandendo slogan e inalberando un cartello. Avrà 'l'Unità' e 'il manifesto' nelle tasche del giaccone, ripiegati in modo che le testate siano sempre visibili, e un saggio Einaudi o Laterza sempre aperto davanti a sé, anche guidando. Sul tetto della macchina il buon comunista avrà un megafono con il quale annunciare il luogo di concentramento di tutte le prossime manifestazioni, anche estere.

Libertini
Come può il vero libertino distinguersi dalla generica sessuomania oggi in auge? Come evitare che una seria, motivata professione di libertinaggio si confonda con lo sbiadito, banale malcostume imperante? Semplice. Con la parrucca sempre in ordine, bene incipriato, il libertino consapevole estrarrà dal giustacuore bigliettini licenziosi che offrirà a tutte le donne che gli capitino a tiro. La sua casa sarà un'alcova, coperta di velluti e cuscini fin dall'ingresso (necessario un aspirapolvere molto potente), con vedute di Venezia e di Parigi alle pareti. Deve avere la sifilide.

(Da L’Espresso, Satira Preventiva, 09 marzo 2007)

27 marzo 2007

Mala tempora currunt (di Giancarlo Livraghi, direttore creativo)

C’è una ricetta per guarire il “male oscuro” che affligge il marketing e la pubblicità?
di Giancarlo Livraghi, da Media Forum (Settembre 1995).


Da molto tempo ormai, nel mondo della pubblicità (e del marketing) c’è un’aria un po’ depressa. Si lavora, si guadagna, si sopravvive ma con poco entusiasmo.

Spesso si parla di “crisi”. Ma anche quando non c’è una specifica difficoltà, il clima è mogio. “Eh, sai, di questi tempi”. Non ci si accorge che i “tempi” di cui ci si lagna durano, senza cambiamento, da parecchi anni.

Ogni tanto qualcuno dice “ehilà, c’è qualcosa di nuovo!”. Non si accorge che il “nuovo” è fatto di parole vuote; o è qualcosa che si sapeva da molto tempo, ma nel frattempo si era dimenticato (...), o qualcosa che era facile prevedere.

Insomma: stagnazione.

Vogliamo provare a capire perché?


1. Chi si diverte?

Da un anno e mezzo sono uscito dal mondo in cui il mio lavoro si è svolto per quarant’anni. Credo di avere prospettiva sufficiente per vedere il quadro senza perdermi nei dettagli; sufficiente distanza per non essere travolto dalla quotidianità. Ciò che vedo, non mi piace.

Quando incontro qualcuno del “vecchio mondo” in cui vivevo prima, chiedo sempre: “ma tu, ti diverti?” Con rare eccezioni, la risposta varia fra “no” e “poco”.

Vi sembra un dettaglio? Non direi.

In una splendida pagina di in cui David Ogilvy descriveva le tensioni quotidiane cui è sottoposto chi lavora in pubblicità, la frase centrale è: "Chi non si diverte, non produce buona pubblicità".

Naturalmente non è vero il contrario: non sempre chi si diverte produce buona pubblicità. C’è gente che sghignazza e produce pubblicità orrenda. Occorrono impegno, disciplina, fatica e talento: ma quando il mestiere è fatto bene, è divertente.

Oggi sembra che si divertano solo i falsari e gli sciocchi


2. Il paradosso della “creatività”

Sono molti anni, ormai, che quando si parla di pubblicità corre il termine “creativo”. A tal punto che sui giornali e nel parlar comune quelli che lavorano in pubblicità sono definiti “creativi”. Sembra il mercato dei guitti “vieni avanti, creativo, dammi un’idea”.

Come se le idee crescessero sui rami.

C’è una frase di Bill Bernbach, poco nota perché seppellita dai suoi finti seguaci (e da tutti i narcisi e i “divi” della pubblicità) sotto un gran mucchio di code di paglia: "Sono molto preoccupato di tutti questi discorsi sulla creatività. Ho paura dei crimini che commetteremo nel nome della “creatività”. Stiamo entrando nell’era dei fasulli".

“We are entering the age of the phonies”. Lo disse nel 1980, e poco dopo morì. Ma i fatti gli hanno dato ragione.

La creatività è come il sesso. Più se ne parla, meno se ne fa.


3. Che cosa vuol dire, “creativo”?

Ho sempre considerato un po’ comica questa definizione “creativo”. Se qualcuno chiedeva a Michelangelo, Mozart o Einstein “che cosa fai” si sentiva rispondere scultore, musicista o fisico. Non “creativo”.

Personalmente, ho sempre preferito dire copywriter. Mi piacerebbe meritarmi un più breve, ma più ambizioso, writer: scrittore.

Per ambiziosa che sia, la parola “scrittore” ha un suono onesto, artigianale, come “pittore”. Chiamarsi “creativo” non è un segno di creatività.

Guardiamoci intorno. Vediamo creatività? Ci sono immagini, statiche o in movimento, realizzate con maestria. Cura nei colori, nelle luci, nella musica. Ci sono testi che sembrano “brillanti” perché nascondono con vezzi barocchi la loro mancanza di contenuti. Il tutto è spaventosamente ripetitivo. Si copia, si imita, ad nauseam. Approfondimento? Vera innovazione? Suvvia ma chi vuole quelle cose? C’è fretta; e l’importante è creare una momentanea suggestione, senza perder tempo ad approfondire.

Insomma un gran vuoto, una girandola di immagini senza sugo né promessa. Ci sono le eccezioni, certo: ma sono poche, e troppo spesso appaiono nuove perché la più semplice delle formule tradizionali sembra una grande novità quando si colloca in mezzo a un mondo di orpelli senza costrutto.

Il concetto di “creatività” si è profondamente corrotto. Si è ridotto ad un esercizio cosmetico, privo di spessore e di contenuto.

Come si spiega? I “creativi” sono tutti superficiali, sciocchi, esibizionisti, incapaci di analisi, privi di immaginazione? No. Le radici del problema sono molto più profonde.


4. Ma perché?

Si sente dire spesso “le agenzie sono in crisi”. A me non sembra. Nonostante tutto, continuano a crescere e a prosperare, anche se nessuno pensa che stiano svolgendo con pienezza il loro ruolo.

Si sente spesso dire dai clienti che non riescono ad avere dalle agenzie ciò che vorrebbero. Ma sanno come chiederlo?

Nella girandola delle “gare”, delle improvvisazioni, dei continui cambiamenti di rotta che spesso derivano da motivi estranei alla comunicazione come ci si può aspettare continuità, approfondimento, entusiasmo?

Allora è facile è tutta colpa dei clienti. Sono diventati prepotenti, impazienti, invadenti. Non ascoltano, impongono; non vogliono dialogo, ma solo obbedienza a ogni loro capriccio.

Ma anche questa è una spiegazione inadeguata. Possibile che tutti i clienti siano così sciocchi da badare solo alla loro ambizione e autorità, da seguire un metodo che alla fine si ritorce contro di loro?

Quanto ai mezzi tutti dicono che non c’è criterio né ragione, che si commercia spazio come se fosse una “merce” indifferente. Gli stessi mezzi se ne lamentano; e ognuno accusa il suo concorrente.

E anche le ricerche si applicano abitualmente metodologie discutibili, si accettano come “misura” criteri grossolani.

Se tutte le componenti di un sistema sono in difficoltà, se ognuna si lamenta dell’altra, l’unica spiegazione possibile è che l’origine del problema sia più generale. Ma qual è?


5. La “crisi del prodotto di marca”

La causa non è la “crisi economica”, su cui troppo spesso si scaricano tutte le colpe. L’economia ha alti e bassi, ma il problema rimane.

La causa è strutturale. Ha un effetto, che non accenna a finire, su tutto il marketing, su tutta la pubblicità, su tutti i metodi di comunicazione e promozione; ma la causa principale è una: la crisi di identità dei prodotti di marca.

Da molti anni sentiamo solenni, sofisticati, aulici discorsi sulla qualità. Convegni, congressi, seminari, corsi di formazione. Tante parole. Pochi fatti. È come per la creatività (e infatti sono sorelle). Se ne parla tanto perché che ce n’è poca.

La marca è in crisi, si dice. Aggredita (...) dalla battaglia dei prezzi e degli sconti, delle promozioni di corto respiro, dallo strapotere della distribuzione.

Perché è in crisi? Perché è debole. Prodotti forti, con significative superiorità reali, con vere barriere tecnologiche, sono molto meno sensibili a questi problemi. Possono soffrire per un po’ di tempo, ma sulla distanza vincono.

Ma quante marche hanno creduto di poter vivere a colpi di “immagine”, di cosmesi, di opportunismo, invece di investire nella qualità e nell’innovazione? I peggiori nemici delle marche sono i falsi profeti che per tanti anni hanno predicato “i prodotti sono tutti uguali, la differenza sta nell’immagine”.

Come insegnava Sun Zu nella sua “Arte della Guerra”, la tattica senza strategia è il rumore che precede la sconfitta. Il trucco presto o tardi si scioglie, come il rimmel che cola dagli occhi di una donna che piange – ma senza passione e senza poesia.

I predatori della distribuzione, gli importatori disinvolti, i negozi a basso prezzo non sono gli assassini delle marche. Sono la nemesi, inevitabile, creata da strategie miopi, marketing superficiale e pubblicità senza contenuto.


6. L’origine del problema

Ma anche la debolezza delle marche (o meglio di quelle marche che hanno dimenticato il vero motivo della loro esistenza) è, a sua volta, una conseguenza di qualcosa di più profondo. La crisi di identità delle imprese.

Nessuno, che io sappia, ha ancora dato una spiegazione nitida dello stato confusionale in cui si trova l’intero sistema economico, politico e culturale del pianeta. Sarebbe troppo lungo tentare qui di approfondire il problema. Ma è chiaro che l’umanità non ha avuto il tempo di adattarsi a una situazione nuova e inesplorata.

Ci sono problemi smisurati, come la crescita della popolazione, le enormi aree di povertà e sofferenza, il dissesto ambientale, la totale inadeguatezza del sistema politico, i conflitti etnici e culturali, che nessuno sa come risolvere. Forse nessuno li vuole affrontare davvero.

Nello steso tempo, ironicamente, c’è una sovrabbondanza di denaro. Denaro che è diventato una convenzione astratta, non corrisponde più a cose “reali” come beni, risorse, prodotti o servizi. Non obbedisce ad alcun “padrone”. Segue regole proprie, logiche governate solo dalle alchimie della speculazione. Un’immensa muffa acefala, senza alcuna direzione od obiettivo, che nutre solo se stessa.

In una situazione come questa l’impresa perde di vista l’idea di avere una “missione” o un’identità. I suoi dirigenti guadagnano e fanno carriera in base a una sola misura: i profitti di breve periodo. Spesso gli incentivi personali, legati al risultato finanziario di un anno o di un trimestre, sono tali da trasformare in un opportunista anche il più geniale degli strateghi. (...)

Il risultato è che invece di pensare, investire, costruire, l’attività più importante è comprare e vendere imprese. E con le imprese, le marche – come se potessero sopravvivere in buona salute staccate dalle loro radici.

Insomma sono scomparse, in gran parte delle situazioni, le premesse di cui si nutre una marca forte, con autentici valori. Così è inevitabile che prevalgano le soluzioni superficiali, la ricerca di una “immagine” fine a se stessa, la tendenza a rifugiarsi nelle tattiche e nella cosmesi. Chi non ha più un’identità e una faccia, va in cerca di chi possa dargli una maschera, magari folle e bizzarra, per la prossima festa in costume. Tanto, si sa, è tutto un carnevale.

A tutto questo si aggiunge la crisi dei mezzi, quelli che Michael Crichton chiama i Medisauri. Non c’è lo spazio qui per approfondire il tema, ma è chiaro che l’intero sistema mondiale dei mezzi di informazione è moribondo, per crisi interna di struttura prima che per crescita delle nuove tecnologie. Perciò la crisi genetica, fondamentale, sta nella perdita di identità dei due grandi poli del sistema: i mezzi e le imprese.


7. Come si risolve?

Non credo nelle panacee e nelle soluzioni miracolistiche. Anche perché se la radice del problema, come credo, è fuori dal mondo del marketing e della comunicazione, non è possibile risolverlo da dentro.

La crisi del sistema economico, politico, informativo dovrebbe essere risolta da chi lo governa. Ma il problema è che nessuno lo governa. E se la diagnosi somiglia in qualche modo alle cose che ho scritto qui, nessuno sta affrontando il problema per quello che è.

Se ne uscirà, probabilmente, in modo conflittuale, con una crisi darwiniana in cui alla fine dovrà prevalere chi davvero saprà tornare ai “valori reali”, a quella “qualità” di cui tanto si parla, ma per cui poco si fa

Intanto, chi opera in una parte del sistema, e non può cambiarne la struttura, che cosa può fare?

“Tirare a campare”, come quasi tutti fanno oggi, cercando di sopravvivere e, per quanto possibile, di ingegnarsi a trarne vantaggio. Del doman non v’è certezza, apres nous le déluge.

Oppure concentrarsi su casi singoli, e ripartire dalle origini. Una singola impresa, una singola agenzia, un singolo professionista, possono decidere di andare contro corrente. Risalire alle radici e farsi le domande fondamentali: chi sono? che diritto ho di esistere? qual è la mia “missione”? che servizio offro, e a chi? come e in che cosa posso essere assolutamente e invincibilmente superiore a tutti gli altri? quali cose devo fare per esserlo?

Questo è possibile se l’impresa ha le risorse (umane e tecniche, prima che economiche) per farlo. Chi ci riesce ottiene il successo tanto più facilmente quanto più gli altri sono dispersi nelle tattiche, nelle politiche di carriera, nelle faide aziendali o nelle alchimie finanziarie. Ci vuole impegno, capacità di innovazione, autentica creatività – e ostinazione. Quando succede, finalmente si sente dire: “sto lavorando molto, ma mi diverto”.



http://gandalf.it/m/tempora.htm

26 marzo 2007

Cronache dal fine settimana

Venerdì congresso di Pediatria On Line a Sirmione: partito alle 8,15, arrivato alle 13,00. W la Bre-Be-Mi...















Sabato mattina visita alla mostra "Street Art, Sweet Art. Dalla cultura hip hop alla generazione "pop up"" al PAC di Milano. Bella e divertente, ai bimbi è piaciuta moltissimo.






























































A seguire, visita al Museo di Scienze Naturali per l'esposizione "Un piccolo grande dinosauro - Il primo dinosauro italiano, un fossile unico al mondo": fatta la conoscenza di "Ciro" siamo andati a pranzo dai nonni.

21 marzo 2007

Come gestire un’agenzia di pubblicità

Come gestire un’agenzia di pubblicità
di David Ogilvy, da “Ogilvy on Advertising” (1983).

Occorrono lunghe ore di lavoro, una capacità di convinzione del più alto livello, una chiglia profonda, coraggio, e il dono di saper sostenere il morale di uomini e donne che lavorano in uno stato di continua ansietà.
Si pensa comunemente che la pubblicità attiri persone nevrotiche che hanno una propensione naturale per l’ansietà. Non credo che sia così. Ciò che accade nelle agenzie può indurre ansia anche nelle persone più flemmatiche.

Il copywriter vive con la paura. Avrà una grande idea entro martedì mattina? Il cliente la accetterà? Andrà bene nelle ricerche? Venderà il prodotto? Non mi sono mai seduto a scrivere un annuncio senza pensare questa volta non ce la farò.

Anche l’account executive ha i suoi motivi di ansietà. Rappresenta l’agenzia dal cliente, e il cliente nell’agenzia. Quando l’agenzia sbaglia, il cliente dà la colpa a lui. Quando il cliente è intrattabile, l’agenzia dà la colpa a lui.

Anche il capo dell’agenzia ha le sue preoccupazioni. Perderemo il cliente tal-dei-tali? Ci lascerà uno dei nostri migliori collaboratori? Farò un fiasco nella presentazione di giovedì prossimo a un nuovo cliente?

Fate in modo che sia divertente lavorare nella vostra agenzia. Quando le persone non si divertono, non producono buona pubblicità. Uccidete la tristezza con una risata. Liberatevi delle persone deprimenti che spargono cattivo umore.

Che personaggi straordinari sono gli uomini e le donne che dirigono agenzie di successo? Secondo le mie osservazioni, sono entusiasti. Sono persone intellettualmente oneste. Hanno il coraggio di affrontare decisioni difficili. Non si perdono d’animo nelle avversità. Molte di queste persone hanno un fascino naturale. Non sono prepotenti. Incoraggiano la comunicazione dal basso, sanno ascoltare. Molti bevono troppo, e leggono poco se non le carte di ufficio, in cui affogano.

20 marzo 2007

Rebranding anche per gli stati: nuova immagine in vista per il Canada

Ovvero come passare dal timido castoro al tenace wolverine.

Dopo le Maldive, anche il Canada cerca una nuova immagine, come riporta l'ultimo numero dell'Economist. L'idea è del primo ministro conservatore Stephen Harper, che a quanto pare non condivide gli stereotipi sul suo paese: inverni freddi e una civile prosperità.
Nell'ultimo mese anzi, il premier ha dichiarato che l'immagine nazionale è rappresentata meglio dal wolverine, in italiano noto come ghiottone, una sorta di piccolo orso marrone molto diffuso soprattutto nell'America del Nord.
Tutto ciò può apparire molto strano, infatti questi mustelidi hanno pessime abitudini: emettono una secrezione dall'odore sgradevole e si cibano di carne putrefatta; sono, insomma, parenti stretti delle puzzole.
Ma in questo caso Mr. Harper pensava alla loro reputazione di grandi e tenaci combattenti di fronte a predatori più grandi. Proprio da loro, infatti, prende il nome l'eroe dei fumetti, Wolverine appunto, uno dei mutanti X-Man dotato di superpoteri, di sensi e istinti animali acutissimi e virtualmente indistruttibile.

Il Canada non è più il topo vicino all'elefante Usa ma un wolverine accanto a un orso grizzly, ha dichiarato il primo ministro. "Possiamo essere piccoli, ma molto feroci nella difesa del nostro territorio". E Mr. Harper se ne intende di rebranding, avendo cambiato decisamente la sua immagine: da arrabbiato conservatore è passato a essere un simpatico centrista ed è occupato a "ritingere" di verde un governo di scettici sul cambiamento climatico.
L'immagine del wolverine è anche destinata a far capire ai canadesi che l'amicizia con il governo Bush non è passiva.
In effetti, il Canada ha già un animale simbolo nazionale: il castoro. E' industrioso ma timido e passa il suo tempo a mangiare alberi per costruire dighe; la sua degna, ma poco dinamica, immagine è proprio ciò che alcuni canadesi vorrebbero lasciarsi alle spalle.

I consulenti di immagine interpellati hanno sentenziato che gli animali usati come simbolo vanno bene: gli Stati Uniti sono rappresentati dall'aquila reale, la Cina ha il dragone, la Russia l'orso e l'Inghilterra il leone. Però il primo ministro è stato troppo azzardato, l'animale scelto deve fare appello al cuore piuttosto che alla testa, cosa che non fa il wolverine, ha dichiarato Nicolas Papadopoulos, uno specialista di country -branding della Ottawa Carleton University.

L'Economist in passato aveva già ipotizzato un nuovo animale simbolo per il Canada. Nel settembre 2003 aveva messo in copertina un alce con gli occhiali da sole, in grado di rappresentare il Canada come combinazione di capitalismo muscolare nordamericano e democrazia socialmente tollerante. E con il riscaldamento globale che sta sciogliendo il ghiacciato nord, l'immagine è prepotentemente attuale.

Dal sito FERPI, 22 Febbraio 2007

19 marzo 2007

E' un periodo che a stare dietro al blog proprio non ci sto riuscendo

Meglio prenderne atto. E non è che manchino gli argomenti.

Ad esempio, giovedì scorso ho partecipato alla presentazione di lancio di YAKULT, bevanda probiotica (anche se si dovrebbe dire alimento) giapponese, ora anche in Italia. Mi sto occupando del loro sito.








L'evento si è svolto al Museo della Scienza e della Tecnica di Milano ed ha incluso una visita al sottomarino TOTI, sempre interessante (nella foto, la base del periscopio).















Sabato, invece, siamo andati a vedere "Asterix e i Vichinghi", bellissimo, in un cinema di Saronno tutto per noi (eravamo gli unici spettatori, forse perché era lo spettacolo che "copriva" in pieno l'ora di cena). Bellissimo, lo consiglio a grandi e piccini (sarà perché ho un debole per gli eroi gallici?)










Ieri giornata casalinga, con visita di amici con bimbo nuovo. Nelle foto, un aggiornamento di M. & G. in sala giochi.







































A presto!

13 marzo 2007

Un sabato sera con due vecchi amici...



Ebbene si, si è trattato proprio di loro: Tittone e Bugs Bunny, protagonisti dell'esilarante "Bugs Bunny On Ice - Il giro del mondo in 80 minuti". Carino, di gran lunga meglio di tante altre porcate viste quest'anno...

09 marzo 2007

Credevo di doverle dire qualcosa (Tagore)

Credevo di doverle dire qualcosa,
quando i nostri sguardi si incrociarono
oltre la siepe.
Ma lei non si fermò.
Le parole che dovevo dire, notte e giorno,
scivolano come barche sopra l'acqua,
o sembrano alzarsi nelle nuvole autunnali,
perennemente ansiose,
o cercano l'attimo perduto nel tramonto,
perdendosi nei fiori tardivi.
Come una lucciola, mi trema in fondo al cuore
il discorso che dovevo fare,
per trovare il giusto significato
nella sua fine disperata.

Tagore, da Dono d'amore, 1917

05 marzo 2007

Sabato, giornata da paura...

Alla mattina, io e M. abbiamo inanellato la seguente sequenza di attività:

  • Ikea, acquisto scrivania con sedia (vedi foto)

  • Castorama, acquisto pomelli per cassettiera

  • Decathlon, acquisto scarpe da calcio e magliette
  • Esselunga, spesa settimanale

Pomeriggio, invece, abbiamo montato la famosa scrivania, che poi è stata affollata di Gormiti...

Momenti belli...



02 marzo 2007

Quell'amore mi ha invasa (Paola Masino, 1908-1989)

QUELL’AMORE MI HA INVASA
Alle soglie della vecchiaia mi accorgo di avere avuto un’infanzia decrepita. Ho vissuto il primo tempo della mia vita come un ricordo, non come una scoperta. Infanzia e giovinezza furono per me due regni favolosi. Non belli, anzi molto spesso pieni di angoscia e di paura, ma addirittura meravigliosi per i mezzi di cui disponevo per combattere angoscia e paura e farmele schiave.Quando m’innamorai portai intero nel mio sentimento l’astratta violenza delle mie private conquiste. E fu un grande amore. Ma proprio per quell’assoluto che m’ostinavo a voler perseguire, dovetti concedere alla vita quanto le spettava. Fu una breccia. Da allora, insensibilmente ma inesorabilmente, particelle invisibili di concessioni, compromessi, abitudini m’inquinarono; e tanto più esse si facevano numerose, tanto meno io m’accorgevo d’esserne invasa e di andar tramutandomi. Ci misero un po’ di tempo a plasmarmi nel peggiore dei modi, quale ora sono. Oggi so che ho perduto, che la mia vita, cominciata come una straordinaria aurora, s’è spenta e fatta al tutto inutile riducendo in cenere anche quei bagliori iniziali, ove avevo creduto di leggere un più nobile e arduo destino.