19 marzo 2013

Ricordo letterario di un papà

Ricordo ancora che un giorno, mentre giocavo accanto al pozzo, l’ho visto [mio padre] steso ai piedi di un covone, con il viso rivolto verso il cielo, e mi è parso così lungo, così immobile, che ho pensato fosse morto e mi sono messo a piangere. Quando mi ha sentito è stato come se si destasse da un sogno. Non so se mi abbia riconosciuto subito, tanto i suoi occhi guardavano lontano. Era una di quelle sere opaline, dal cielo di un bianco uniforme, all’ora in cui l’erba diventa verde scura e ogni filo si staglia vibrante nell’immensità, come nelle tele degli antichi pittori fiamminghi. «Che cos’hai, figliolo?». «Ho preso una storta correndo». «Vieni, siediti qui». Avevo paura, ma mi sono seduto nell’erba accanto a lui. Mi ha passato un braccio attorno alle spalle. In lontananza si vedeva la casa, col fumo che saliva diritto dal comignolo sul biancore del cielo. Mio padre non parlava; ogni tanto sentivo le sue dita stringersi sulla mia spalla. Guardavamo entrambi il vuoto. I nostri occhi dovevano essere dello stesso colore e mi domandavo se anche lui avesse paura. Non so fino a quando avrei potuto sopportare quell’angoscia; dovevo essere pallidissimo, quando abbiamo sentito uno sparo dalla parte del Bois Per-du. Allora mio padre si è riscosso, ha cavato di tasca la pipa e mentre si alzava ha ripreso la sua solita voce per dirmi: «Toh! Mathieu spara a una lepre nel Pré Bas». Sono passati due anni. Non mi rendevo conto che mio padre era già vecchio, più vecchio degli altri padri. Di notte si alzava sempre più spesso e io sentivo degli sciacquii e dei bisbigli; il mattino dopo mi sembrava stanco. A tavola mia madre gli porgeva una scatoletta di cartone, dicendo: «Non dimenticarti la pillola...». Un giorno, quando avevo nove anni ed ero a scuola, un nostro vicino, il vecchio Courtois, è entrato nell’aula e ha detto qualcosa al maestro, sottovoce. Mi hanno guardato tutti e due. «Per favore, bambini, state buoni per qualche minuto. E tu, Alavoine, vieni in cortile con me». Era estate. Il cemento del cortile era caldo. Attorno alle finestre erano fiorite le rose muscose. «Vieni qui, caro Charles...». Il vecchio Courtois era già andato ad aspettarmi vicino al portone, appoggiato alla grata di ferro battuto. Il maestro mi aveva passato un braccio intorno alle spalle, come mio padre quel giorno. Il cielo, di un azzurro vivo, risuonava di canti di allodole. «Ormai sei un ometto, Charles, nevvero? E so che vuoi tanto bene alla tua mamma. Ma adesso dovrai volergliene ancora di più, perché d’ora in poi avrà un gran bisogno di te...». Avevo già capito tutto prima che finisse di parlare. Anche se non avevo mai pensato che mio padre potesse morire me lo immaginavo morto, lo vedevo disteso sotto il covone, come quella sera di settembre di due anni prima. Non ho pianto, signor giudice. Né più né meno che qui, in corte d’assise. E se i giornalisti mi definiranno di nuovo «viscido rospo», pazienza. Non ho pianto ma mi è sembrato di non avere più sangue nelle vene, e quando il vecchio Courtois mi ha portato a casa sua tenendomi per mano camminavo come dentro una nuvola, in un universo inconsistente come una nuvola.

Georges Simenon, Lettera al mio giudice, 1951

 

Nessun commento: