07 luglio 2006

Requiem per la pubblicità

DA LA STAMPA WEB - CULTURA
DOPO LA MORTE DELLE IDEOLOGIE, DELLA PATRIA, DEL ROMANZO, UN ALTRO LUTTO ECCELLENTE: LO ANNUNCIA A SORPRESA MAURICE SAATCHI
Requiem per la pubblicità
6/7/2006
di Paolo Martini

Ovviamente l’incipit è all’altezza della fama di un creativo che di nome fa Maurice Saatchi: «Qualche volta mi sento come se stessi sulla tomba di una cara amica chiamata pubblicità. Il rito funebre è già stato completato. Anche i becchini hanno già fatto il loro dovere. I congiunti sono riuniti. Ma la maggior parte di essi è imbarazzata ad ammettere che era amico della defunta. “Pubblicità?”, dicono, “no, non sono del mestiere”. A soli 50 anni, la pubblicità è stata fatta fuori nel fiore dell’età». Non è che l’inizio di un intervento sul Financial Times in cui il co-fondatore dell’agenzia Saatchi&Saatchi (da cui è uscito nel ’94) ha decretato «La strana morte della pubblicità moderna». E dire che, proprio grazie agli spot, Lord Maurice, un sessantenne nato a Baghdad da famiglia ebrea, sta al trecentesimo posto o giù di lì nella classifica mondiale degli uomini più ricchi.

Conservatore di nome e di fatto (ha coniato lo slogan filo-tories più acuminato, «Labour isn’t working», un gioco di parole traducibile con «al partito del lavoro non si lavora», ma anche «il Labour non funziona»), stavolta Maurice Saatchi sentenzia con furore quasi rivoluzionario che la pubblicità ormai è da buttare. Non ci sono più speranze per gli spot, spiega: è un dato ormai acquisito dalla ricerca sociologica, dalla psicologia e persino dalla neuroscienza. È dimostrato ormai che nelle nuove generazioni cresciute con la civiltà digitale si è andata radicalmente modificando la fisiologia stessa del cervello. L’uomo digitale è sveglio e reattivo come non mai, capace di esaminare più realtà contemporaneamente, ma sempre più in superficie. Scrive Saatchi: «Questo, a quanto pare, è ciò che rende possibile a un adolescente di oggi, nei 30 secondi di un normale spot tv, di: fare una telefonata, mandare un sms, ricevere una foto, giocare, scaricare un file musicale, leggere un giornale e guardare uno spot a velocità x 6. La chiamano CPA (attenzione parziale continua). Risultato: la percentuale di memoria postuma di uno spot visto il giorno prima è calata dal 35% degli Anni 60 al 10% di oggi».

Stavolta non siamo di fronte alle provocazioni filosofiche di Jean Baudrillard, che nel Sogno della merce ha teorizzato, ormai vent’anni fa, la morte della pubblicità in quanto tale, come attività di comunicazione, in un mondo in cui ciascun nostro gesto è diventato solo apparenza pubblicitaria. La botta di Saatchi viene da uno del mestiere e riguarda proprio il mondo dei mass media, ma con brillantezza viene suggerita anche una soluzione: «Dunque, dicono, sociologia, tecnologia e psicologia hanno messo la pubblicità nella bara. Se hai un business nel settore, hai un piede nella fossa. Che fare? Non resta che pregare», scrive ancora Lord Maurice sul Financial Times. «Come si conviene, una Bibbia è a tua disposizione nella bara. E siccome sei un timoroso di Dio, la sfoglierai. E, per grazia divina, ti cadrà ai piedi, aperta proprio alla pagina che può indicarti la via di salvezza. La salvezza è nel Vangelo di Giovanni: “All'inizio era il Verbo... E il Verbo era Dio”. Nessun copy avrebbe potuto scriverla meglio». In sostanza, bisogna tornare alla parola, nel senso della parola chiave da associare al proprio business, come è per esempio evidente in tutto il mondo l’abbinamento che c’è ormai tra Google e «search» (cerca). A questo punto la singola parola indovinata può essere considerata come un vero e proprio capitale: «one word equity» è l’espressione coniata da Saatchi.

Le prime reazioni degli addetti ai lavori sono ovviamente di sbandamento: «Premesse valide, conclusione insana», ha sentenziato per tutti Grant McCracken sul suo blog mediatico internazionale. «E invece il discorso sta in piedi, eccome, e soprattutto in Italia», spiega Lillo Perri, osservatore storico del mercato pubblicitario, che sul suo sito ha rilanciato per primo l’articolo di Saatchi. «Altro che il barocco imperante negli spot, la super-spettacolarità e il megamarketing! Ormai è morto un sistema, e noi lo vediamo ancor più nettamente: il mercato dei media è una sorta di monopolio assoluto di Mediaset-Publitalia, le rilevazioni ufficiali sono una truffa legalizzata, le agenzie pubblicitarie non hanno quasi più voce in capitolo con i clienti, l’impoverimento culturale domina. Insomma, ha ragione Saatchi: se c’è una speranza per la pubblicità, è tornare alla parola». Aggiunge Fausto Lupetti, editore specializzato in pubblicità: «Una volta il problema poteva essere l’affollamento, adesso è più radicale: come si può raggiungere un utente impegnato in tante attività di comunicazione contemporaneamente? Ci vuole un grande sforzo inventivo, non basta riconvertire su Internet gli spot. La pubblicità, ha ragione Saatchi, deve essere rifondata da zero».

Curiosamente, ha notato Marco Fossati sul suo blog Creative classics, anche un altro copy-leggenda, il cattivissimo e antifemminista Neil French, ha appena rilasciato un’intervista per sostenere che la pubblicità deve ripartire dall’inizio, dagli Anni Trenta, dal testo puro e semplice. «Trova la parola, e avrai trovato la salvezza. E la vita eterna» è la sentenza finale di Saatchi. «Un’analisi assolutamente da condividere», premette Eleonora Fiorani, antropologa culturale del Politecnico di Milano, autrice, tra l’altro, di una Grammatica della comunicazione. «Ma il punto da considerare, rispetto allo slogan della morte della pubblicità, è che siamo tutti comunque dentro a un grande flusso pubblicitario. Con una proliferazione di forme nuove la pubblicità ha conquistato l’ambiente in cui viviamo: magari non guardiamo più gli spot in tv, ma le città intere sono schermi, le marche si sono fatte territorio, con i concept-store, il linguaggio della pubblicità lavora sulle emozioni e persino sugli odori. Non credo proprio che tutto questo sia traducibile in parola».

Nessun commento: